La retorica,
soprattutto in tema di politica europea, è davvero un utile esercizio. Sia che
si vagheggi il ritorno alle quadrate nazioni del bel tempo antico, sia che si invochi
la federazione democratica tutta e subito, le mozioni del cuore ti sollevano
dall’affrontare i problemi veri. Sono anni che la corte costituzionale tedesca
ha dichiarato che se non si cambia il sistema di ripartizione dei seggi al
Parlamento europeo, riequilibrando il rapporto nazionalità degli eletti-popolazione
rappresentata, Karlsruhe si opporrà ad ulteriori devoluzioni di poteri all’Ue.
Sono mesi che la Cdu ha approvato una mozione congressuale in cui - oltre a
proporre l’elezione diretta del presidente della Commissione europea insieme
alla piena codecisione fra Consiglio e Parlamento - viene sollevata la stessa questione
della sottorappresentazione degli stati grandi a Strasburgo. E sono giorni che l’appello
italo-tedesco per l’Europa federale, primi firmatari Giuliano Amato e Ulrich
Beck, è tornato indirettamente sul punto. Eppure non c’è nessun opinion maker che osi denunciare l’intoppo
sovrano che pur si aggira nudo per l’Europa, o tanto meno cerchi di gettargli
qualche straccio di soluzione addosso.
Neanche a dire che la
materia appartenga poi alle astruserie bizantine, tenendo conto dell’intenzione
dichiarata dalla cancelliera tedesca di voler procedere verso l’unione politica
del continente; non solo, ma anche delle asserzioni trapelate in questi giorni dalla
Banca centrale europea, come ci informa l’agenzia «Europe». Recita infatti una
recente sortita giornalistica, rivista ed approvata dalla presidenza della
Banca: “Credevamo che l’unione monetaria fosse il coronamento del mercato unico;
oggi ci rendiamo conto che di fatto è l’inizio dell’unione politica”. E da una
simile prospettiva come sarà mai possibile escludere o marginalizzare l’europarlamento?
Da cui, per converso: ma come si farà a caricarlo di poteri di tipo federale se
continuerà a restare scarsamente rappresentativo?
Scoglione duro,
insomma, quasi come la struttura cranica del ministro Schäuble, giacché le
obiezioni avanzate dai giudici tedeschi posseggono un’indubbia consistenza.
Come documentato da chi scrive e da Giulia Vassallo sul numero di
ottobre-dicembre 2008 della rivista on-line «EuroStudium», le magagne nell’eurorappresentanza attuale, per
quanto ignote al grande pubblico, balzano decisamente agli occhi: tanto per
dire, per eleggere un deputato tedesco ci vogliono circa 850 mila voti e poco
meno per un italiano, per uno sloveno 250 mila, e per un maltese o un
lussemburghese poche decine di migliaia. Tutto a causa delle disposizioni dei
trattati, confermate a Lisbona, che limitano al numero di 96 deputati la
rappresentanza popolare più numerosa, quella tedesca, assegnandone invece
almeno 6 ai paesi in miniatura, i quali, se si rispettasse un criterio
proporzionale, non otterrebbero magari nemmeno un seggio.
Immaginarsi dunque la
distorsione, rispetto all’espressione della volontà dei cittadini europei uti singuli. In breve, mentre
all’Olanda, che è paese di 16 milioni di abitanti, spettano 26 parlamentari,
fra tutti i paesi minimi, che ammontano complessivamente a 15 milioni, ci si spartiscono
ben 65 seggi. Con buona pace di chi ami rivendicare il ruolo
democratico-costituente dell’euroassemblea, nonché con qualche ragione,
parecchia, di chi dubiti della validità delle maggioranze strasburghesi. Ora,
resta vero che in linea di massima le votazioni si tengono secondo la
disciplina dei gruppi, e non per nazionalità, tuttavia ciò non toglie che le
maggioranze, fra e dentro i gruppi, risultino deformate. Non solo, ma c’è da
temere che la facilità con cui in un paese piccolo si possono rastrellare 6
deputati finisca per incoraggiare la tendenza dei grandi, partiti o governi che
siano, a influire in vario modo sulle consultazioni elettorali dei minori, pur
di accaparrarsi un manipolo di rappresentanti popolari di proprio gradimento. E
via così con lo shopping, di
microcosmo in microcosmo.
A ben vedere, cioè, nell’Unione
di oggi di percepisce l’intento di non procedere troppo speditamente verso lo
schema federale, tipo Stati Uniti d’America: stando ad esso, una camera, quella
dei rappresentanti, riproduce piuttosto fedelmente la volontà generale, mentre
l’altra, il Senato, esprime la posizione degli stati, ognuno considerato uguale
all’altro. Pertanto ogni componente dell’unione a stelle e strisce dispone di
due senatori, eletti dai propri concittadini, per assolvere a tale funzione. Viceversa,
nell’Ue si assiste ad una sorta di contaminatio:
mentre il Parlamento è eletto nel modo sopra descritto, la funzione di
rappresentare gli stati non è affidata ad una camera composta di senatori
elettivi (e dunque potenzialmente appartenenti anche all’opposizione), bensì al
Consiglio dei ministri, dove siedono soltanto i rappresentanti dei governi. Al
di là del fatto che attualmente il Consiglio e i singoli governi dispongono di
poteri molto più grandi rispetto al Parlamento (si pensi al diritto di veto su
materie fondamentali) e dunque si è ben lontani dalla codecisione di tipo
bicamerale, il particolare curioso è questo: i trattati prevedono che
all’interno del Consiglio si voti sì per stati, ma tenendo conto della
popolazione rappresentata. Sicché, una volta andate a regime tutte le clausole
previste, i provvedimenti, per essere approvati, richiederanno il voto del 55
per cento dei ministri, alla condizione che ad essi corrisponda anche il 65 per
cento della popolazione. Tant’è che l’organismo più confederale, il Consiglio,
risulterà essere più garantista, sia pure mediatamente, della volontà generale,
di quanto non sia il Parlamento di Strasburgo.
Come fare, allora,
per conferire all’assemblea europea la dovuta rappresentatività? Questo è il
nodo su cui varrebbe la pena esercitarsi, ove si voglia davvero accelerare il
cammino verso l’unione politica. Quattro soluzioni appaiono a prima vista
percorribili: tener conto delle entità regional-federali presenti negli stati
grandi, accordando loro una rappresentanza comparabile a quella degli altri
stati membri dell’Ue (in gran parte inferiori ai 10 milioni di abitanti), in modo
da tale da riequilibrare le proporzioni; ponderare il voto dei parlamentari a
seconda della quota di popolazione rappresentata; sospingere i paesi piccoli ad
aggregazioni regionali, riducendo gli attuali scompensi; procedere ad una
precisa redistribuzione proporzionale, lasciando però almeno un deputato ai
paesi minimi, come suggerito dalla stessa corte tedesca.
In proposito non si
può omettere che il Parlamento ha incaricato il cosiddetto gruppo di Cambridge
di compiere dovuti ricalcoli, ma alla condizione del mantenimento degli attuali
limiti minimi e massimi, come previsti dai trattati. E ciò non consente di
cambiare di molto le proporzioni correnti. Esiste poi la proposta del deputato
inglese Duff di ritagliare un collegio europeo, non nazionale, di 25
parlamentari. Tuttavia, per quanto stimolante, l’idea non muta di molto i
termini della questione. Inoltre, notizia recentissima, il Partito popolare
europeo l’ha già bocciata in partenza.
Più stimolante sarà
forse l’illustrazione della ricordata mozione della Cdu che si terrà, salvo
contrordini, a metà aprile, nell’occasione di una visita di parlamentari
tedeschi presso la Camera dei Deputati. In quella circostanza si potrà percepire
con una certa precisione quali siano le aspettative nutrite nei dintorni di
Berlino, in tema di ripartizione dei seggi a Strasburgo, per dare in cambio il
consenso all’accelerazione dell’unione politica, al rilancio del ruolo della
Commissione e alla piena codecisione Parlamento – Consiglio. Chi scrive, peraltro
non da solo, si sta adoperando perché la suddetta, pubblica illustrazione
avvenga sul serio. E “Gli Stati Uniti d’Europa” figurerà ovviamente fra i
promotori dell’evento.
La qual cosa comunque
non ridimensiona l’urgente necessità di esercitare collettivamente i cervelli
in materia. Tanto più che l’attuale Unione lamenta pesanti manchevolezze anche
al di là del tema “one man, one vote”, riguardante l’europarlamento. Altrettanto
gravido di pericoli si segnala infatti un altro principio di rappresentanza adottato
largamente nelle istituzioni chiave della Ue, che potrebbe sintetizzarsi nella
formula “one state, one chair”. A dispetto, infatti, delle enormi disparità di
popolazione, ogni stato membro della Ue si vede riconoscere uguaglianza di status e di poltrone. Un fenomeno reso
decisamente patologico dai recenti allargamenti, complice il tracollo del muro
sovietico, che hanno introdotto a Bruxelles una quantità di stati minimi,
assurti a entità dotate di sovranità assoluta anche quando non erano mai
risultati tali in tutta la loro storia.
Eppure, ancora una
volta, la cosa non sembra suscitare obiezioni. Ché, anzi, malgrado il
potenziale polverizzante della ex Jugoslavia, con i balcanici intenzionati ad
accedere uno dopo l’altro all’Ue, pochi sembrano preoccuparsi delle conseguenze
del processo. Tanto per dire, non si percepiscono obiezioni all’idea che la
Corte di Giustizia, o la Corte dei Conti si gonfino fino a 30 e passa membri,
uno per ogni stato. In pratica, al di là degli effetti assembleari
sconcertanti, la maggioranza dei togati in queste istituzioni potrà esser
composta da cittadini originari del paradiso comunista e dintorni. E fin qui…,
però se poi si tiene conto che essi rappresentano di fatto non più del 20 per
cento della popolazione dell’Ue, e forse nemmeno la più acculturata ai criteri
occidentali, c’è da preoccuparsi. Siamo sicuri, infatti, che i suddetti
organismi avranno la credibilità sufficiente per farsi carico di questioni
fondamentali, con l’Ue ormai tesa verso l’unione politica? Non si dovrà forse
stabilire un numero fisso, e ridotto, di togati, indipendentemente dalla
nazionalità, come accade negli Usa per la corte federale, e anche altrove, da
scegliere per altissima competenza, grazie al vaglio, per ipotesi, di
Parlamento e Consiglio?
Il medesimo
ragionamento vale anche a proposito della Commissione europea, malgrado sia
previsto, per ridurre il numero dei membri, un regime di rotazione, paritaria
però!, fra grandi e piccoli. Tanto che uno finisce per chiedersi, senza dirlo
ovviamente a quelli della Lega: ma perché ci toccherà sempre un commissario
kosovaro e mai uno scozzese, o catalano? Se uno poi pensa che, con l’unione
politica, spetterà ad una Commissione assembleare del genere gestire il governo
economico e le risorse dell’Unione... L’unica speranza, al riguardo, proviene
ancora una volta dalla mozione della Cdu tedesca: con l’elezione a suffragio
universale diretto del presidente della Commissione, la balcanizzazione
dovrebbe essere scongiurata. Toccherà poi al neoeletto, che non potrà essere
uno sprovveduto se sarà uscito vincitore da una campagna elettorale paneuropea,
proporre il pacchetto di colleghi commissari all’approvazione dell’europarlamento.
Ma sul punto, ancora
una volta, sarà il caso di attendere dalla viva voce dei proponenti tedeschi, a
metà aprile, alla Fondazione della Camera, il frutto delle loro meditazioni. Grazie
al cielo, esiste ancora qualcuno che propone soluzioni in termini precisi e
concreti. Magari con notoria durezza, d’accordo, ma evitando la vacuità
retorica. Ché se poi la medicina salvifica debba valere per tutti, o piuttosto
per un gruppo più ristretto di paesi disposti all’avanguardia, questo è un altro
tema, in verità non nuovo, ma sul quale il ricordato appello italo-tedesco interviene
con opportuna decisione. Al pari della tempistica delle scelte, che non dovrà
superare il 2014, anno delle prossime elezioni europee.
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