One Man, One Vote?
One State, One Chair?


di Francesco Gui 



La retorica, soprattutto in tema di politica europea, è davvero un utile esercizio. Sia che si vagheggi il ritorno alle quadrate nazioni del bel tempo antico, sia che si invochi la federazione democratica tutta e subito, le mozioni del cuore ti sollevano dall’affrontare i problemi veri. Sono anni che la corte costituzionale tedesca ha dichiarato che se non si cambia il sistema di ripartizione dei seggi al Parlamento europeo, riequilibrando il rapporto nazionalità degli eletti-popolazione rappresentata, Karlsruhe si opporrà ad ulteriori devoluzioni di poteri all’Ue. Sono mesi che la Cdu ha approvato una mozione congressuale in cui - oltre a proporre l’elezione diretta del presidente della Commissione europea insieme alla piena codecisione fra Consiglio e Parlamento - viene sollevata la stessa questione della sottorappresentazione degli stati grandi a Strasburgo. E sono giorni che l’appello italo-tedesco per l’Europa federale, primi firmatari Giuliano Amato e Ulrich Beck, è tornato indirettamente sul punto. Eppure non c’è nessun opinion maker che osi denunciare l’intoppo sovrano che pur si aggira nudo per l’Europa, o tanto meno cerchi di gettargli qualche straccio di soluzione addosso.

Neanche a dire che la materia appartenga poi alle astruserie bizantine, tenendo conto dell’intenzione dichiarata dalla cancelliera tedesca di voler procedere verso l’unione politica del continente; non solo, ma anche delle asserzioni trapelate in questi giorni dalla Banca centrale europea, come ci informa l’agenzia «Europe». Recita infatti una recente sortita giornalistica, rivista ed approvata dalla presidenza della Banca: “Credevamo che l’unione monetaria fosse il coronamento del mercato unico; oggi ci rendiamo conto che di fatto è l’inizio dell’unione politica”. E da una simile prospettiva come sarà mai possibile escludere o marginalizzare l’europarlamento? Da cui, per converso: ma come si farà a caricarlo di poteri di tipo federale se continuerà a restare scarsamente rappresentativo?

Scoglione duro, insomma, quasi come la struttura cranica del ministro Schäuble, giacché le obiezioni avanzate dai giudici tedeschi posseggono un’indubbia consistenza. Come documentato da chi scrive e da Giulia Vassallo sul numero di ottobre-dicembre 2008 della rivista on-line «EuroStudium», le magagne nell’eurorappresentanza attuale, per quanto ignote al grande pubblico, balzano decisamente agli occhi: tanto per dire, per eleggere un deputato tedesco ci vogliono circa 850 mila voti e poco meno per un italiano, per uno sloveno 250 mila, e per un maltese o un lussemburghese poche decine di migliaia. Tutto a causa delle disposizioni dei trattati, confermate a Lisbona, che limitano al numero di 96 deputati la rappresentanza popolare più numerosa, quella tedesca, assegnandone invece almeno 6 ai paesi in miniatura, i quali, se si rispettasse un criterio proporzionale, non otterrebbero magari nemmeno un seggio.

Immaginarsi dunque la distorsione, rispetto all’espressione della volontà dei cittadini europei uti singuli. In breve, mentre all’Olanda, che è paese di 16 milioni di abitanti, spettano 26 parlamentari, fra tutti i paesi minimi, che ammontano complessivamente a 15 milioni, ci si spartiscono ben 65 seggi. Con buona pace di chi ami rivendicare il ruolo democratico-costituente dell’euroassemblea, nonché con qualche ragione, parecchia, di chi dubiti della validità delle maggioranze strasburghesi. Ora, resta vero che in linea di massima le votazioni si tengono secondo la disciplina dei gruppi, e non per nazionalità, tuttavia ciò non toglie che le maggioranze, fra e dentro i gruppi, risultino deformate. Non solo, ma c’è da temere che la facilità con cui in un paese piccolo si possono rastrellare 6 deputati finisca per incoraggiare la tendenza dei grandi, partiti o governi che siano, a influire in vario modo sulle consultazioni elettorali dei minori, pur di accaparrarsi un manipolo di rappresentanti popolari di proprio gradimento. E via così con lo shopping, di microcosmo in microcosmo.

A ben vedere, cioè, nell’Unione di oggi di percepisce l’intento di non procedere troppo speditamente verso lo schema federale, tipo Stati Uniti d’America: stando ad esso, una camera, quella dei rappresentanti, riproduce piuttosto fedelmente la volontà generale, mentre l’altra, il Senato, esprime la posizione degli stati, ognuno considerato uguale all’altro. Pertanto ogni componente dell’unione a stelle e strisce dispone di due senatori, eletti dai propri concittadini, per assolvere a tale funzione. Viceversa, nell’Ue si assiste ad una sorta di contaminatio: mentre il Parlamento è eletto nel modo sopra descritto, la funzione di rappresentare gli stati non è affidata ad una camera composta di senatori elettivi (e dunque potenzialmente appartenenti anche all’opposizione), bensì al Consiglio dei ministri, dove siedono soltanto i rappresentanti dei governi. Al di là del fatto che attualmente il Consiglio e i singoli governi dispongono di poteri molto più grandi rispetto al Parlamento (si pensi al diritto di veto su materie fondamentali) e dunque si è ben lontani dalla codecisione di tipo bicamerale, il particolare curioso è questo: i trattati prevedono che all’interno del Consiglio si voti sì per stati, ma tenendo conto della popolazione rappresentata. Sicché, una volta andate a regime tutte le clausole previste, i provvedimenti, per essere approvati, richiederanno il voto del 55 per cento dei ministri, alla condizione che ad essi corrisponda anche il 65 per cento della popolazione. Tant’è che l’organismo più confederale, il Consiglio, risulterà essere più garantista, sia pure mediatamente, della volontà generale, di quanto non sia il Parlamento di Strasburgo.

Come fare, allora, per conferire all’assemblea europea la dovuta rappresentatività? Questo è il nodo su cui varrebbe la pena esercitarsi, ove si voglia davvero accelerare il cammino verso l’unione politica. Quattro soluzioni appaiono a prima vista percorribili: tener conto delle entità regional-federali presenti negli stati grandi, accordando loro una rappresentanza comparabile a quella degli altri stati membri dell’Ue (in gran parte inferiori ai 10 milioni di abitanti), in modo da tale da riequilibrare le proporzioni; ponderare il voto dei parlamentari a seconda della quota di popolazione rappresentata; sospingere i paesi piccoli ad aggregazioni regionali, riducendo gli attuali scompensi; procedere ad una precisa redistribuzione proporzionale, lasciando però almeno un deputato ai paesi minimi, come suggerito dalla stessa corte tedesca.

In proposito non si può omettere che il Parlamento ha incaricato il cosiddetto gruppo di Cambridge di compiere dovuti ricalcoli, ma alla condizione del mantenimento degli attuali limiti minimi e massimi, come previsti dai trattati. E ciò non consente di cambiare di molto le proporzioni correnti. Esiste poi la proposta del deputato inglese Duff di ritagliare un collegio europeo, non nazionale, di 25 parlamentari. Tuttavia, per quanto stimolante, l’idea non muta di molto i termini della questione. Inoltre, notizia recentissima, il Partito popolare europeo l’ha già bocciata in partenza.

Più stimolante sarà forse l’illustrazione della ricordata mozione della Cdu che si terrà, salvo contrordini, a metà aprile, nell’occasione di una visita di parlamentari tedeschi presso la Camera dei Deputati. In quella circostanza si potrà percepire con una certa precisione quali siano le aspettative nutrite nei dintorni di Berlino, in tema di ripartizione dei seggi a Strasburgo, per dare in cambio il consenso all’accelerazione dell’unione politica, al rilancio del ruolo della Commissione e alla piena codecisione Parlamento – Consiglio. Chi scrive, peraltro non da solo, si sta adoperando perché la suddetta, pubblica illustrazione avvenga sul serio. E “Gli Stati Uniti d’Europa” figurerà ovviamente fra i promotori dell’evento.

La qual cosa comunque non ridimensiona l’urgente necessità di esercitare collettivamente i cervelli in materia. Tanto più che l’attuale Unione lamenta pesanti manchevolezze anche al di là del tema “one man, one vote”, riguardante l’europarlamento. Altrettanto gravido di pericoli si segnala infatti un altro principio di rappresentanza adottato largamente nelle istituzioni chiave della Ue, che potrebbe sintetizzarsi nella formula “one state, one chair”. A dispetto, infatti, delle enormi disparità di popolazione, ogni stato membro della Ue si vede riconoscere uguaglianza di status e di poltrone. Un fenomeno reso decisamente patologico dai recenti allargamenti, complice il tracollo del muro sovietico, che hanno introdotto a Bruxelles una quantità di stati minimi, assurti a entità dotate di sovranità assoluta anche quando non erano mai risultati tali in tutta la loro storia.

Eppure, ancora una volta, la cosa non sembra suscitare obiezioni. Ché, anzi, malgrado il potenziale polverizzante della ex Jugoslavia, con i balcanici intenzionati ad accedere uno dopo l’altro all’Ue, pochi sembrano preoccuparsi delle conseguenze del processo. Tanto per dire, non si percepiscono obiezioni all’idea che la Corte di Giustizia, o la Corte dei Conti si gonfino fino a 30 e passa membri, uno per ogni stato. In pratica, al di là degli effetti assembleari sconcertanti, la maggioranza dei togati in queste istituzioni potrà esser composta da cittadini originari del paradiso comunista e dintorni. E fin qui…, però se poi si tiene conto che essi rappresentano di fatto non più del 20 per cento della popolazione dell’Ue, e forse nemmeno la più acculturata ai criteri occidentali, c’è da preoccuparsi. Siamo sicuri, infatti, che i suddetti organismi avranno la credibilità sufficiente per farsi carico di questioni fondamentali, con l’Ue ormai tesa verso l’unione politica? Non si dovrà forse stabilire un numero fisso, e ridotto, di togati, indipendentemente dalla nazionalità, come accade negli Usa per la corte federale, e anche altrove, da scegliere per altissima competenza, grazie al vaglio, per ipotesi, di Parlamento e Consiglio?

Il medesimo ragionamento vale anche a proposito della Commissione europea, malgrado sia previsto, per ridurre il numero dei membri, un regime di rotazione, paritaria però!, fra grandi e piccoli. Tanto che uno finisce per chiedersi, senza dirlo ovviamente a quelli della Lega: ma perché ci toccherà sempre un commissario kosovaro e mai uno scozzese, o catalano? Se uno poi pensa che, con l’unione politica, spetterà ad una Commissione assembleare del genere gestire il governo economico e le risorse dell’Unione... L’unica speranza, al riguardo, proviene ancora una volta dalla mozione della Cdu tedesca: con l’elezione a suffragio universale diretto del presidente della Commissione, la balcanizzazione dovrebbe essere scongiurata. Toccherà poi al neoeletto, che non potrà essere uno sprovveduto se sarà uscito vincitore da una campagna elettorale paneuropea, proporre il pacchetto di colleghi commissari all’approvazione dell’europarlamento.

Ma sul punto, ancora una volta, sarà il caso di attendere dalla viva voce dei proponenti tedeschi, a metà aprile, alla Fondazione della Camera, il frutto delle loro meditazioni. Grazie al cielo, esiste ancora qualcuno che propone soluzioni in termini precisi e concreti. Magari con notoria durezza, d’accordo, ma evitando la vacuità retorica. Ché se poi la medicina salvifica debba valere per tutti, o piuttosto per un gruppo più ristretto di paesi disposti all’avanguardia, questo è un altro tema, in verità non nuovo, ma sul quale il ricordato appello italo-tedesco interviene con opportuna decisione. Al pari della tempistica delle scelte, che non dovrà superare il 2014, anno delle prossime elezioni europee.

 3 aprile 2012

 

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