Il parto con forcipe, e possibile riscatto, dell’Italia europea


di Francesco Gui 


Secondo una visione serenamente deterministica del corso della storia, quanto è accaduto all’Italia in questi giorni non può che fornire conferma ad assodate certezze: volente o nolente, per quanto recalcitrante e largamente inconsapevole, la società della pizza e del mandolino viene piegata dalla forza del processo di unificazione economica europea, viene commissariata dall’alto e costretta a darsi le regole che da sola non saprebbe imporsi. Tutto, o quasi, era chiaro, tutto, più o meno, era previsto. A questo punto, non si tratta altro che di additare al ceto politico e alla coscienza pubblica i veri, ulteriori obiettivi da perseguire - per esempio, ovvio, gli eurobond, non meno dello stato federale europeo - e una siffatta limpidezza di prospettiva, peraltro già insita nella natura delle cose, ma trasformata in tal modo in acquisizione della ragione, non potrà alla lunga non imporsi.

 

Difficile negare, in effetti, che gli avvenimenti contemporanei, al di là di tanti colpi di scena alternati a viscerali crisi di panico, dimostrano la forza inerziale di fenomeni profondi della realtà socio-economica, che la stessa politica, anche quella che apparentemente detta legge, è costretta ad assecondare: basti pensare alla cancelliera tedesca, sospinta a smentire ogni giorno che passa quanto asserito in quello precedente, ovvero ad accedere a concessioni e decisioni dichiarate come inaccettabili fino a un momento prima. In altre parole, stante la fortissima interdipendenza economico-monetario-finanziaria del Vecchio Mondo, alla crisi non è, ragionevolmente, possibile rispondere se non con un’intensificazione dell’integrazione e non certo con la lacerazione fra le varie componenti, per quante incompatibilità reciproche possano sussistere, ove non tendano addirittura ad aggravarsi. Tant’è che quelle stesse componenti si vedono giocoforza obbligate a riformare se stesse, comprendendo finalmente le ragioni e le logiche del processo in cui si trovavano coinvolte spesso senza nemmeno averne una reale coscienza. Un processo in cui taluni, vedi la Germania, pur diffidando dei propri partner, pur recalcitrando ostinatamente, non possono non prendere la barra del timone e in cui altri, vedi il nostro paese, non possono non essere ricondotti a comportamenti virtuosi provvidenzialmente imposti dall’esterno.

 

Giocoforza, appunto. Onde per cui, coloro che possiedono una chiara e sicura percezione della logica interna del corso degli eventi non possono certo curarsi de minimis, non si impelagano, giustamente, a mostrare simpatia per un leader politico od un altro, non fanno caso alla cronaca e nemmeno a singoli, controversi aspetti della realtà interna di un paese, vedi l’Italia, al quale magari appartengono; il loro compito è di additare all’intera Europa, ai suoi cittadini e alle sue élite politiche l’obiettivo finale, con determinazione, con tenacia, con giustificato disdegno del contingente e del particolare, con la coscienza di assolvere ad un ruolo, ad una missione di cui essi sono gli unici possibili araldi ed esecutori. Gli altri, per parte loro, è bene che seguano e sperabilmente eseguano, magari associandosi in compagini all’insegna dell’unità nazionale, per meglio rispondere alle esigenze di una dinamica il cui esito sarà peraltro il superamento della sovranità statuale, sia pure come paradossale risultato della convinzione di servire egregiamente alla medesima.

 

Ciò detto, dato a Cesare quel che è di Cesare, e forse a Mario quel che è di Mario, sussiste almeno in me tutta un’altra serie di considerazioni che non mi risulta tanto facile da reprimere o dismettere. Vale a dire: in tutti questi anni di degenerazione della società italiana all’insegna del bunga-bunga, ‘ndranga-‘ndranga, tira-tira (di coca) e via evadendo, non abbiamo per caso mancato al nostro compito di militanti federalisti (spinelliani, degasperiani, ciampiani, tps-sini)? Ovverossia, non avremmo dovuto impiegare tutte le nostre forze per avvertire, denunciare, educare, informare, precisare, approfondire, obiettare, avversare, contrastare, al fine di mettere in condizione il nostro paese di partecipare consapevolmente, attivamente, criticamente, positivamente alla nascita, peraltro ancora tutta da contemplare, di una nuova entità politico-sociale di importanza mondiale, quale l’Europa federale? E ancora: siamo sicuri che, al di là di ogni soluzione economico-tecnocratica indispensabile a mettere su solide basi tale percorso, non siano aspetti più culturali, comportamentali, di fiducia reciproca a risultare altrettanto indispensabili per il raggiungimento dell’obiettivo? E che questi, ove si presentino come ostacoli, possano finire per inceppare i pur lodevolissimi strumenti economico-istituzionali, grazie ai quali, adottati che siano per amore o per necessità storica, la federazione dovrebbe comunque venire alla luce?

 

Come minimo, c’è da immaginare che una realtà statale novella, insorta per commissariamento degli uni sugli altri, corra il rischio di risultare fin dalle origini, per quanto necessaria, anche alquanto distorta, probabilmente deforme, di fatto direttoriale, più coartata che voluta, vistosamente claudicante e perennemente deludente, se non passibile di lasciare potenzialmente aperti devastanti conflitti interni (tanto per dire, la federazione modello, gli Usa, ha conosciuto a suo tempo una guerra civile fra Nord e Sud, prima di consolidarsi definitivamente, salvo le gravissime tensioni dell’oggi). Di sicuro infonde veramente un senso di colpa e di rimpianto vedere il nostro paese, per tanti aspetti indispensabile per la creazione di una vera federazione europea, arrivare in condizioni così disastrose all’appuntamento con un crocevia storico talmente imponente.

 

D’accordo, forse, magari è possibile che, di fronte a una simile sfida, la penisola intera trovi finalmente uno scatto di orgoglio, scopra una volta per tutte di essere impreparata, disinformata, inadeguata, regressiva, oltre che buffonesca, imbrogliona e pasticciona agli occhi del mondo, e proceda ad una radicale revisione della propria fisionomia interiore e fattuale, ritrovando la passione per la cultura e per la scienza; rilanciando la scuola e la conoscenza (lingue comprese); riscoprendo le virtù necessarie a sconfiggere criminalità organizzata e diffusa; rivalutando onestà e senso della cosa pubblica; migliorando la propria efficienza in ogni dentello della macchina amministrativo-burocratica; dotandosi di politici, diplomatici, funzionari, operatori di grande preparazione; distinguendo fra pubblico e privato; abbandonando leghismi e campanilismi per mettere le risorse dei più efficienti a disposizione di tutti ai fini di una comune partecipazione all’instauranda società europea federale; trasferendo infine il dibattito e la riflessione politica dal battibecco autoreferenziale all’approfondita valutazione del contesto giuridico-istituzionale dell’Unione (a tutt’oggi del tutto inadeguato, oltre che troppo squilibrato a favore di vere o presunte sovranità nazionali). E via dicendo, senza dimenticare il dovere di restituire motivazioni, idealità, generosità, spirito di innovazione e di scoperta a generazioni di giovani che oggi aprono i maggiori quotidiani del paese per ritrovarvi, accanto ad elementari quanto marchiani errori sull’abc dell’Unione, paginoni e paginoni di avvincenti opzioni su quali slip o quali sandaletti acquistare immantinente per sentirsi finalmente realizzati.

 

D’accordo, sì, forse, magari alla flessibilità della psiche italica non è del tutto escluso il saper intorcinare l’anguilla sino al punto da adattarla alla forma e alle sinuosità della gabbia, né si può negare, come avvenuto al tempo della tassa per l’Europa, subita per entrare nell’euro, che il cittadino medio assecondi un latente senso patriottico, associato ad un rassegnato disincanto nei confronti della politica, per piegarsi a sacrifici che altrove provocherebbero reazioni ben più accese. Però, appunto, poco da fare, di fronte alla miseria morale e intellettuale, prima ancora che economica, alla sventatezza in cui è sprofondata un intera nazione, finita commissariata per la sua insipienza, una più che qualche amarezza per quello che in tutti questi anni poteva esser fatto, dai federalisti, e non è stato compiuto, da qualche parte resta. Resta, per esempio, in tema di mancate campagne di informazione sull’utilizzo della moneta unica, che avrebbe dovuto essere gestita con teutonica attenzione ai centesimi, non con un disinvolto volteggio, praticamente uno zompo, dalle mille lire all’euro, come se nulla fosse. Sicché, ad oggi, una pensione che era di due milioni, e pertanto considerata piuttosto ricca, trasformata in circa mille euro, è da giudicarsi alle soglie, se non sotto, della miseria, perché, poco da fare, quella pensione vale ormai poco più di uno e non due milioni di allora

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O ancora, sempre a titolo di esempio, quando il compianto Tommaso Padoa Schioppa sfidava coraggiosamente il senso comune decantando la bellezza delle tasse, forse sarebbe stato importante il concorso di una forza organizzata disponibile non solo a sostenerlo, ma a denunciare palesi, diffusi, rigonfi fenomeni di evasione che, volendo, non sarebbero stati poi molto difficili da contenere, magari con la corresponsabilizzazione dei singoli cittadini (ed anche da riassorbire, con ragionevoli miglioramenti della legislazione, talvolta tardivamente messi a punto). E perché poi non aver incalzato i media, sollecitandoli a fare confronti con i livelli di qualità della vita e di efficienza, con le mentalità, i comportamenti, i valori, le statistiche, le facce dei partner con cui condividevamo il mercato unico e la moneta, cavallo di Troia della federazione a tutti gli effetti? E non sarebbe stato il caso, passando ai costi della politica, di esigere tempestivamente, per dire, l’aggancio delle retribuzioni dei commessi o dei barbieri della Camera a quelle dei docenti universitari (non l’inverso, per carità), così almeno da non far sfigurare un Rubbia davanti a un sussiegoso portiere di Montecitorio?

 

Insomma, al di là delle mille esemplificazioni, e a questo punto lasciando proprio perdere il bubbone berlusconiano, d’un livido paonazzo ineffabile, insuperabile, inimmaginabile, sarebbe stato giusto che i federalisti si predisponessero da subito a propugnare le ragioni, e le necessarie durezze, dell’Italia europea. Presumibilmente sarebbero rimasti a lungo nell’immaginario popolare, almeno di un certo popolo, come strampalati predicatori nel deserto, come noiosi portatori di malasorte, da esorcizzare con plateali toccamenti, come saccenti professorini ammantati di quella “curtura” di cui son piene le fosse. Ché poi, a ben vedere, anche i professorini, nel loro piccolo, quando s’inc… E però, al giorno d’oggi, ove quei professorini (e i federalisti non sono comunque tutti tali) si fossero a suo tempo inalberati, dedicati, profusi, stizziti, sussisterebbero almeno le premesse, i personaggi a cui rivolgersi, un embrione di classe dirigente, le motivazioni e le idealità di cui avvalersi per iniziare finalmente a risalire la china, per riapparire sul ciglio del dirupo e sventolare ai partner europei le proprie buone ragioni, la propria voglia di costruire insieme, la propria sicura affidabilità: ossia la base indispensabile sulla quale è possibile convincere un interlocutore (i tedeschi poi…) a condividere la sovranità, a mettersi almeno in parte nelle mani dell’altro, a rischiare addirittura di andare in minoranza, accettando lealmente il fatto ogniqualvolta il pulviscolo dei consorti si pronunci diversamente rispetto alle proprie posizioni.

 

Perché, vivaddio, è facile, specie da parte italiana, mettersi là con atteggiamento saputo e impancarsi a far chiarezza nell’ottuso cervello bavarese: ma è ovvio, caro Hans, la soluzione dei problemi è il governo federale dell’economia, è la democrazia federale europea, ivi comprese la politica estera e quella della difesa. Elementare Hans, ma come fate a non capirlo? D’accordo, non capiscono, ma il problema comunque non si sposta: attuare la federazione democratica europea, oltretutto secondo il principio “one man one vote”, considerato tassativo dalla corte federale di Karlsruhe, vuol dire mettersi ampiamente a discrezione degli altri. Vuol dire accettare, mettiamo, che una combinazione maggioritaria di voti italo-ispano-franco-greco-ungaro-rumeno-sloveno-malto-polono-portoghesi possa deliberare, mettendo in minoranza gli altri, in tema di regole del traffico, benché in buona parte dei rispettivi paesi le regole vengano in genere disattese e sbeffeggiate. Talché, non solo ci si dovrebbe piegare ad una legislazione non voluta, da parte dei perdenti – e si tenga conto che certe eventualità possono accadere su materie o in occasioni ben più pressanti, tali da mettere in crisi la coesione interna dei gruppi parlamentari – ma succederebbe altresì che anche nei paesi dove la legge viene rispettata rigorosamente si insinuerebbe nel pubblico la sfiducia sulla credibilità delle norme. Con intuibili conseguenze sul prestigio del principio democratico stesso, a non volersi spingere oltre.

 

Ecco, Hans e Gretel magari non comprendono, però non possono essere sottovalutati i rischi e le contraddizioni cui si può andare incontro in un processo inquinato dal pressapochismo e della sfiducia reciproca, ed è pertanto da presumere che i due fratellini della favola, pur attirati dalla succosità del grande mercato e della moneta unica, annusino nell’aria miasmi da strega cattiva, pronta a metterli tutti e due sotto chiave, magari proprio perché sono grassi, e grassi in effetti lo sono, con il segreto desiderio di cucinarli nel calderone. Sarà allora forse per questo che la Merkel, a Bruxelles, invece di farsi palpare il dito grassoccio, mette sempre avanti ossuti bastoncini? O non succederà invece, vai a vedere, che alla fine saranno i maschietti e le femminucce germaniche a mettere la strega Ue nel pentolone, portandosi via tutti i suoi beni?

 

In definitiva, a psicologie tendenzialmente ansiose come quella del sottoscritto pare una scommessa davvero azzardata avviarsi così, ottimisticamente, a cuor leggero, nelle condizioni date, verso l’attuale accelerazione “giocoforza” del processo di integrazione, il quale processo, a ben vedere, e ci smentisca l’Onnipotente, significa poco meno che sfidare la maledizione biblica della Torre di Babele (nel nostro piccolo ne sappiamo già qualcosa noi italiani, del nord e del sud). A siffatte ansanti psicologie, niente da fare, sarà pur sintomo di debolezza di reni, però dà semplicemente lo spasmo veder comparire al tavolo delle trattative della grande riunificazione continentale, in rappresentanza della terra di Dante, di Galileo e Cavour, una galleria delle più sconcertanti escrescenze metastasizzatesi chissà come nella medesima plaga di santi e navigatori, di poeti e inventori, notoriamente decantati dalla buonanima. Ma davvero affideremo noi a Papi (oh Papi, ci mancavano pure 10 milioni di euro a un condannato in esterno-mafia da Tribunale e Corte d’appello, come Marcellino dell’Utri, per farci fare buona figura fra Parigi, Berlino e Bruxelles! ma Papi!), ma davvero affideremo noi a certi ineffabili connazionali, e la galleria si presenta interminabile, un così epocale processo, che sfida i limiti stessi della natura umana, e non soltanto, vale la pena di ripeterlo, la tenuta delle scarselle e dei borsellini?

 

Fuori di ogni sarcasmo, non sembra realmente possibile ipotizzare che persone fino a ieri così indifferenti, incompetenti, impreparate, incomparabilmente distanti da ogni reale riflessione e conoscenza a proposito di qualsivoglia aspetto dell’unificazione europea, non meno che della reale fisionomia dell’Unione, possano ora gestire con credibilità, efficienza, consapevolezza di quel che fanno una fase politica la cui impegnatività fa veramente tremare le vene ai polsi. Allo stesso modo, risulta assolutamente improbabile che una società così tenuta distante, disinformata, non acculturata in tema di Europa (nella mia facoltà umanistica, alla Sapienza, ateneo non minimale, non esiste una tradizione di studi sull’Unione europea) riesca agilmente a farsi parte attiva del processo, sia per sospingerlo lungo ardite direttrici e sia anche per tutelare i propri legittimi interessi. Eppure, a tale ultimo proposito, il quadro resta di fatto ancora confuso, incerto, contraddittorio, pervaso da inquietanti pulsioni latenti (tutti da scoprire i paesi di recente allargamento, per non dire di quelli balcanici...) quanto non immune da riflessi veteronazionalistici diffusi persino in coloro (la stoccatina questa volta è per Sarkò l’Africano) che commissariano, guidano, portano la maggiore responsabilità dell’ondivago galoppo del toro mitologico con Europa sulla groppa, nervosamente afferrata alle due corna, la francese e la teutonica.

 

Disperiamo allora, concludendo, di poter assistere ad un esito positivo del processo di ulteriore integrazione? Disperiamo insomma di una nascita sanitariamente accettabile della federazione europea, estratta dolorosamente alla vita dai cucchiaioni a forcipe della finanza speculativa e delle agenzie di rating? Disperazione magari no, benché la scena richieda obiettivamente degli stomaci forti. La speranza, si dice, e non da oggi, è ultima dea. Per cui non diamo nemmeno per necessariamente abortita, malgrado le gravi infermità della gestante, la contrazione espulsiva, seguita dai primi vagiti, dell’Italia europea. Tuttavia, quel senso di rimpianto e di amarezza per le occasioni mancate non sembra attenuarsi tanto facilmente, anzi prende alla gola, e raggiunge i precordi, con sempre maggiore intensità, stimolando un desiderio di riscatto.

 

Vale a dire che i federalisti del Belpaese, pur aspirando a promuovere lodevoli mobilitazioni, quali l’Iniziativa dei cittadini europei (ICE), orientate a dare la scossa ad un intero continente mediante la raccolta di un milione di firme in almeno sette paesi diversi, non dovrebbero tuttavia sottrarsi al compito di venire al soccorso dell’Italia europea. Per la verità, in parte lo hanno già fatto all’ultimo congresso del Mfe, quello di Gorizia, che ha sottoscritto una notevole “mozione per l’Italia europea”, consultabile sul sito del Movimento, mettendo al contempo al lavoro una commissione sullo stesso tema. La quale commissione ha già prodotto un primo documento di carattere economico, a firma di Antonio Longo e Alberto Majocchi, che descrive impietosamente i mali del paese, suggerisce di insediare un governo di emergenza e di garanzia istituzionale, espone con lucidità le riforme interne che dovranno essere adottate, nonché integrate con misure di carattere europeo.

 

Basterà però tutto questo ad esercitare un impulso adeguato, pur nell’apprezzamento, tutt’altro che estemporaneo ed improvvisato, del contributo di Alberto Majocchi, vero punto di riferimento per i federalisti e non solo, oltre che nel riconoscimento dell’apporto di tante altre illuminate personalità del Mfe? Presumibilmente no. Con lucido realismo un grande intellettuale europeo come Jürgen Habermas ha recentemente auspicato che un partito europeo, sostenuto vivamente dal basso, dalla partecipazione del corpo sociale, dai movimenti si rimbocchi finalmente le maniche e si dia come obiettivo di scalpellar fuori dalla dura materia ancora informe, come i Prigioni michelangioleschi, la sospirata federazione democratica del Vecchio Mondo. Uguale a dire che l’Europa, e l’Italia, avrebbero bisogno di vedere emergere una vera forza politica, lungimirante, determinata, capace di suscitare un moto delle coscienze, una volontà creativa, una consapevolezza di osare l’inosato. Per merito di quella formazione politica, i pur sostanziosi moti convettivi dell’economia reale, dei decreti di risanamento draconiani, dei sistemi produttivi desiderosi di crescere e fronteggiare la concorrenza internazionale - il tutto immerso in assetti funzionalistici a suo tempo sapientemente predisposti, ma ormai largamente inadeguati – dovrebbero trasformarsi in decisione dei popoli di superare le sovranità, di plasmare istituzioni nuove, di sottomettersi ad un comune ed irreversibile disegno fondativo.

 

Il dettaglio mancante, tuttavia, è che quel partito al momento non esiste, pur nella generale convinzione che qualcosa dovrà pur farsi, e pur non volendo da parte nostra ignorare un’iniziativa davvero incoraggiante come la costituzione a Bruxelles dello Spinelli Group, animato da autorevoli personalità di paesi diversi. Purtroppo nemmeno in Italia, la terza gamba tutto sommato indispensabile del nucleo duro dell’Unione, si profila una formazione politica pienamente avvertita delle premesse e delle conseguenze di quanto avvenuto con il recente commissariamento della direzione economica nazionale da parte dei maggiorenti della Ue. Tanto meno emerge nei vari schieramenti una forma mentis intenzionata a rovesciare i conformismi di una politica tutta rivolta a scrutare ogni pieguzza dell’ombelico nostrano, volgendola finalmente a prendere in esame, valutare, affrontare le grandi tematiche continentali, che sono poi quelle da cui dipende la floridezza o meno dell’ombelico in questione. In questo quadro, anche un appello di qualche mese fa rivolto da alcuni federalisti al segretario del Pd, Bersani, affinché il suo partito facesse propria l’eredità storica, culturale e progettuale del federalismo europeo, spinelliano e non solo, non è stato nemmeno degnato di una risposta.

 

Ma non varrà allora la pena, o, meglio, non sarà allora doveroso per i federalisti, stante che l’Italia europea, sia pure nel modo più penoso, è ormai stimolata e messa in moto, tentare di deglutire l’amaro in bocca delle occasioni mancate per recuperare con ancor maggiore consapevolezza il tempo perduto? Ossia supplendo almeno in parte all’assenza della forza politica organizzata di cui sopra, una forza adeguatamente e competentemente schierata per la federazione europea e per un’Italia presentabile al suo interno? Presumibilmente, anzi, assolutamente sì, ma supplire come? Quello di cui si sente il bisogno è un saldo momento associativo, largamente visibile, di tradizione risorgimentale-repubblicana, se possibile adorno di simboli evidenti (magari non come il sole verdino o le ampolle della Lega, però un qualche dodici stelle con venature tricolori…), non intimidito dall’ipotesi di scelte coraggiose, possibilmente diffuso nelle università e fra i portatori di neuroni pensanti, ispirato ad una percezione della serietà degli eventi non dimentica della temperie drammatica con cui settant’anni or sono, a Ventotene (ancora vigente il Patto Ribbentrop-Molotov, ancora versante la Francia nell’onta di Vichy, ancora imperante l’Asse Roma-Berlino) alcuni confinati antifascisti si resero conto della spasmodica necessità, per i democratici di tutto il continente, di unire le forze, indipendentemente dalle appartenenze nazionali, per redimere e far rifiorire la comune civiltà.

 

Ai nostri giorni urge innanzitutto un lavorio di educazione e di sensibilizzazione, di approfondimento e di preparazione, di impegni mantenuti e di proposte da mettere in pratica, di severa autocritica e di drastica, consapevole, motivata emancipazione dalle maggiori piaghe nazionali. Incalza la necessità di instaurare un clima di fiducia e di rispetto con gli altri partner europei, pena l’insuccesso dei progressi dell’Unione (la quale riceverà viceversa nuovo impulso dal percepire un paese come l’Italia rinnovarsi in nome del comune progetto). Necessita un rinnovato afflato patriottico, inteso nel senso migliore del termine, grazie al quale e soltanto grazie al quale, di fronte alla sfida avvincente della comune avventura europea, potranno essere ritrovate ragioni, spinte ed energie per esercitare un deciso impulso innovatore nella società e nelle istituzioni. Si esige privilegiata attenzione per l’etica del lavoro, della solidarietà e della creatività. Si impone il riscatto di tutti coloro che assolvono silenziosamente alla propria quotidiana fatica e che risultano ad oggi troppo sacrificati sull’altare degli esibizionismi mediatici, vero oppio dei popoli.

 

Solo su queste basi, sperabilmente coinvolgendo le forze della società civile, le sue componenti economiche ed anche le diverse entità religiose, sarà consentito attuare, rendere realistico, sostenere con adeguate risorse un programma come quello prefigurato dalla commissione per l’Italia europea del Mfe. E in generale sarà possibile rispondere adeguatamente alle esigenze del decennio appena apertosi, specie se, appunto, alle proposte di natura economica verranno affiancate istanze e motivazioni che ci sia consentito definire etico-politiche.

 

Sogni di una notte di mezza estate? Fantasticherie di un Ferragosto tormentoso e commissariato? Può darsi, ma da qualche parte, anche ad opera di pochi, sarà il caso di cominciare a rimboccarsi le maniche, come ci ha suggerito il filosofo. Alcune componenti federaliste che approvano l’iniziativa dell’Italia europea, molti simpatizzanti per il messaggio di Spinelli, cui va il conforto del Capo dello Stato, enti e le associazioni che raccolgono l’eredità di “Ulisse”, qualora siano disponibili ad iniziative comuni, possono dare la prima scossa.

 

18 agosto 2011

 

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