Trota e Padania affogati in Tanzania:
L'Italia  finalmente in Europa grazie alla Lega?


di Francesco Gui 

Evviva! L’unità d’Italia è salva! Nel nome delle “dazioni” e del “tengo famiglia”, anche la Lega di Umberto Bossi si è riunita finalmente alla grande comunità nazionale, confermando quell’ineffabile senso di appartenenza, dalle Alpi alla Sicilia, che rende la penisola veramente “una”, “una d’arme [oddio…], di lingua [più o meno], d’altare [in effetti l’Umberto s’è subito rifugiato in chiesa], di memorie [giudiziarie? una cifra], di sangue [la mamma del Trota, mezza sicula è] e di cor [o forse gol?]”. Proprio così, o pressappoco, la voleva il Risorgimento e così la garantiva il sommo poeta di ascendenza eminentemente lombarda. Altro che ampolle celtiche o fratellanze padane! Altro che sprezzanti rodomontate contro l’inquinamento psicofisico portato dai terroni! Ché poi, quelle volte che i veneti tuonavano in vernacolo contro le “scoasse de Napoi”, nemmeno i fratelli lumbard lo capivano che si trattava della “monnezza” a Mergellina… Vabbé, ormai la stagione del pirla, o del colpo di mona, è superata: “non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia mai più”. E difatti, giustamente, il tesoriere legaiolo, quello che protendeva la Padania fino alla Tanzania, non è che ci avesse la puzza sotto al naso verso il calabresello della ‘ndrangheta. Ma quando mai? Preciso come il Cav di Arcore: “ghe pensi mi”. E allora dagli Belsito, dagli sotto con i “danè”, senza barriere, “dal Cenisio alla balza di Sicilia”.

Unità ed eguaglianza finalmente! All’insegna del portafoglio duro, grosso e palpabile per tutti. Non più, insomma, da una parte Roma ladrona, mentre dall’altra: “con quel volto sfidato e dimesso, con quel guardo atterrato e incerto con che stassi un mendico sofferto per mercede nel suolo stranier, star doveva in sua terra il Lombardo…” Non più, non più. Fino ad oggi, indubbiamente, “l’altrui voglia era legge per lui [sempre il misero lumbard], il suo fato un segreto d’altrui; la sua parte servire e tacer”. Ma adesso no, basta. Oramai, cara Italia, tutti eroi, e tutti accoppiati: “ecco alfin dal tuo seno sboccati, stretti intorno à tuoi santi colori, forti, armati de’ propri dolori, i tuoi figli son sorti a magnar”. Ma non era “pugnar”? Inezie, sfumature, sta a guarda’ il capello, come dicono quelli della ladrona. La passione prepotente, aggressiva, famelica?, vivaddio, è patrimonio spirituale nazionale. E non passerà certo da un momento all’altro.

Grandezza del poeta. Potenza profetica del Manzoni che aveva capito tutto. Non soltanto sul suo tempo, non soltanto su quanto successo ai nostri giorni, ma anche su quello che - una volta andata in vacca la Padania e ricongiunta in un flusso di liquami la capitale morale celtico-formigoniga con Nocera, Casal di Principe e la Vucciria - il destino riserverà agli abitanti dell’intera penisola. Perché ormai “il suo fato [dell’Italia] sui brandi vi sta”. Ovverossia: “O risorta per voi la vedremo al convito dei popoli assisa, o più serva, più vil, più derisa, sotto l’orrida verga starà”.

E proprio qui difatti sta il punto, pur nella malcelata soddisfazione per il disdoro di un Calderoli, o la rinuncia alla Porsche dei fratelli Bossi. Ma siamo sicuri che da questa dilagante crisi morale (ci perdoni il senatore Lusi della Margherita se in proposito pensiamo anche a lui) il paese saprà ritrovare il senso della dignità e il legittimo orgoglio per uscire riscattato una volta per tutte, praticamente vaccinato contro l’infestazione parassitario-rapinatoria di quella che è stata la seconda repubblica? Sia consentito dubitarne seriamente, o almeno rendersi conto che sarà necessaria una stagione di impegno sfibrante e di dedizione appassionata se si vuole che l’Italia della costituzione repubblicana e della decorosa partecipazione al convito dei popoli (l’Unione europea, in primis) non esca universalmente demotivata, sfiduciata, resa intimamente inerte dalle inverosimili, devastanti vicende di degenerazione della vita democratica indotte dal comportamento dei partiti e di tanti famelici mestieranti accampatisi sul proscenio governativo-parlamentare negli ultimi decenni.

Perché l’amara verità, sfortunatamente, è questa. E cioè che, allorché venne a concludersi la stagione della cosiddetta prima repubblica sotto l’incalzare delle iniziative giudiziarie miranti a bonificare la politica e la società dall’inquinamento di Tangentopoli, il risultato fu esattamente l’opposto di quello sperato. Vale a dire che, una volta cadute nel discredito le istituzioni, invece che assistere ad un risveglio etico-politico in grado di portare al vertice gli ottimi della società, ci si trovò di fronte, con l'eccezione di una pattuglia di prodi presto abbattuti, all’arrivismo degli spregiudicati, dei personaggi di seconda fila assatanati di potere e denaro, dei rotti a tutto, fuorché alla cultura e al bene comune. Da cui le devastanti conseguenze per la democrazia italiana, soltanto negli ultimi tempi fronteggiate da un governo di emergenza portato al vertice non già dalla reazione autoctona delle “itale genti”, quanto dalla “verga”, per la verità nemmeno tanto “orrida”, della Commissione di Bruxelles, sospinta dai mercati internazionali.

Ma la fondata preoccupazione, appunto, è che la “verga”, quella davvero repellente – lasciando stare le protuberanze a soffietto di cavalieri ormai in disarmo – sia ancora tutta da vedere e da sentire. Sussiste insomma il legittimo sospetto che dall’ulteriore sprofondamento della repubblica democratica italiana (dopo la prima anche la seconda) possa sortire come effetto il quasi totale disincanto verso la politica da parte dei cittadini, la disaffezione nei confronti delle istituzioni di garanzia collettiva, il diffondersi di un individualismo sempre più rassegnato quanto nevrotico. A quel punto non potrebbe esserci spazio se non per una sorta di chiusura oligarchica della società e della vita pubblica, come già accaduto in epoche lontane, magari con il concorso di funambolismi attivistici da parte di specialisti del numero, ottimi per distogliere l’attenzione del pubblico e dei media dalla crescita dei poteri opachi. Sempre che non vi si aggiunga una frammentazione particolaristica del corpo della nazione, tale da rinchiuderlo in tante comunità introflesse quanto sono le cento città di cui esso si compone, una frammentazione che “ancora una gente risorta potrà scindere in volghi spregiati, e a ritroso degli anni e dei fati, risospingerla ai prischi dolor”. Che non è poi prospettiva del tutto irrealistica. Caso mai il contrario.

Ben venga dunque, in definitiva, e con il conforto di don Lisander, la soddisfazione per lo sgangherato tracollo di chi minacciava separatismi, divisioni etniche e secessioni, prospettando invariabilmente regressioni nel passato e ricadute, quelle sì sicure, nei “prischi dolor”. Ma attenzione, appunto, allo spettro della ritrovata unità nazionale del “così fan tutti”, del “non c’è niente da fare”, dell’Italietta complice e intimamente compiacente, perché alla fine i risultati potrebbero rivelarsi non dissimilmente dolorosi. Talché sotto l’imperio della “verga” si vedrebbero sconciamente accompagnarsi il pervasivo malaffare nazionale con la mefitica influenza di poteri esterni, inevitabilmente manipolanti su un corpo gelatinoso, compromesso, equivoco, privo di nerbo. Quod Deus – o almeno il popolo italiano - avertat!

La speranza, insomma, e nei limiti del possibile anche l’impegno, è che proprio lì, tra la Bormida, il Ticino, l’Adige e l’Isonzo, ma ovviamente anche altrove, il forzato affievolirsi delle grevi sonorità leghiste sia occasione e stimolo per un serio ripensamento dell’intera questione nazionale, per una presa d’atto che il Risorgimento attende ancora di essere pienamente compiuto, sia pure senza la presunzione che la penisola sia proprio “una”, di armi, di sangue, d’altare, ma magari almeno di civiltà, di istituzioni e anche “di cor”. Forse le migliori energie padane potrebbero veramente snebbiarsi dall’incantamento cialtronesco– ma come hanno fatto? – che le ha stregate, vuoi alla vista della canottiera esibita ad Arcore, vuoi del dito medio inalberato a mo’ di ostensorio per le folle. Forse quelle energie potrebbero davvero far tesoro della penosa disavventura per dimostrare le indubbie potenzialità del Nord nell’assicurare, se necessario imporre, efficienza, affidabilità, solidarietà, dedizione alla ricerca e all’innovazione, spirito imprenditoriale, avversione per il crimine, senso civico, rispetto delle istituzioni, rinascita della democrazia dei partiti, nel rispetto delle tutele costituzionali. Da estendere a tutto il paese…

“Oh, giornate del nostro riscatto!”, sempre recitando insieme al poeta meneghino (lumbard, come Borghezio) con la fiducia, ma non troppa, che sotto il Resegone, o eventualmente il Grappa, qualcuno abbia il coraggio di riscoprirlo come proprio riferimento ideale. Anche in tempi brevi, dannazione. (Perché, per quanto bravo, per quanto milanese anche lui, il Mario bocconiano non è che possa risolvere tutto da solo, dalla campana di vetro). E se questo avverrà, con il contributo di tutti noi che lo vogliamo e operiamo in siffatta prospettiva, si può star sicuri che al centro dell’attenzione ci sarà “il convito di popoli”, l’Unione europea in primis, quale luogo di rinnovata affermazione di identità, di concorso al progresso della civiltà (“Ogni gente sia libera e pèra della spada l’iniqua ragion”) e al tempo stesso metro di misura indispensabile per valutare se il riscatto sia davvero avvenuto o se l’Italia, tutta intera, sia destinata ad annegare nella “monnezza” o nelle “scoasse” che dir si vogliano.

Questo è il compito, nazionale e sovranazionale insieme, che deve far seguito al collasso del localismo etnico-separatista, suggestivo come la smorfia dell’Umberto. Con la collaborazione convinta di chi sta al di qua e al di là degli Appennini, del Po, o dello stretto di Messina. Perché a “quel convito” c’è oltretutto spazio, legittimo, anche per la tutela delle tradizioni e per l’esercizio della sussidiarietà. Ma molto, molto meno, invece, per la cialtroneria, l’arroganza ignorante, il populismo dei furbi, che proprio in questi giorni ha dimostrato la fine che fa.

 9 aprile 2012

 

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